Era una bella ragazza, Tiziana. Molto bella. Quanto basta per diventare famosa. Un giorno finisce in una rete più grande di lei. Gira un video hot con un ragazzo, all’insaputa del fidanzato. Quel video finisce su internet. Che equivale, in pratica, a dire ovunque. Tiziana resta marchiata a fuoco. Forse all’inizio ha tenuto il gioco, forse si è goduta quell’effimera celebrità che il web riesce a donarti per qualche giorno. Non lo sappiamo. Però, poi, a un certo punto, ha detto basta, ha provato a fare dietrofront. Era possibile? Certo che no. La sua faccia, il suo rapporto orale, il suo meme (“Bravoh”) erano destinati a restare imprigionati in migliaia di server, nelle ricerche Google, nelle condivisioni Facebook, nei messaggi WhatsApp.

Il web non ti dà diritto all’oblio, non ti permette di dimenticare né di essere dimenticati. Come un virus, si moltiplica e si diffonde. Eppure Tiziana ci aveva provato, a farsi dimenticare. Aveva intentato causa ai colossi del web per ottenere la rimozione dei suoi video e delle sue foto. Inutilmente. La scorsa settimana una sentenza del tribunale di Napoli Nord le ha dato torto su quasi tutta la linea. Il giudice ha respinto le richieste cautelari nei confronti di Yahoo, Google e YouTube, che hanno speculato e guadagnato su di lei come su tanti altri personaggi della rete. Dal tritacarne mediatico Tiziana non poteva più uscirne. Era prigioniera. Quelle immagini erano lì, per sempre, sotto gli occhi di tutti. Si è sentita soffocare. Al punto che le è bastato poco, un foulard, per togliersi la vita.

A cura di Marco Aragno

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