23 novembre del 1980. Ore 19 e 34. Quella domenica di autunno – calda, sinistramente calda, raccontano – io non c’ero. Sarei nato sei anni più tardi, nel 1986. E come me tantissime persone sono venute al mondo senza sentire quel boato. Noi, quelli nati dopo, siamo i figli del sisma. Ne abbiamo avvertito il suono nei racconti masticati dai nonni e dai genitori. Abbiamo sopportato il peso delle macerie nelle opere incompiute, nei palazzi sventrati lungo i corsi storici, negli edifici prigionieri per decenni di gabbie di impalcature. Abbiamo ereditato la paura dei nostri anziani ogni volta che la terra fa tremare il lampadario della cucina.

Due terremoti a confronto

Il terremoto ha portato via qualcosa a tutti. A chi una casa, a chi un lavoro; a qualcuno un figlio o un papà. Ai giuglianesi – e ai figli che sarebbero venuti – ha portato via il cinema. La nostra ferita si chiama cinema Smeraldo, via Aniello Palumbo. Quel boato che il 23 novembre del 1980 durò appena 80 secondi l’ha seppellito sotto il silenzio. I pennini impazziti del sismografo hanno bloccato il proiettore. Il terremoto ha calato sopra quella sala una specie di sortilegio che nessun imprenditore e amministrazione hanno avuto il coraggio e la forza di spezzare.

Il 23 novembre del 2020 io ci sono. E’ un lunedì. Non fa molto caldo. Il primo freddo morde le ossa. Si prospetta un inverno lungo, tormentato. Il boato che si sente oggi non viene dalla terra, ma dall’asse mediano. E’ quello delle sirene delle ambulanze che vanno a caricare i pazienti Covid in debito di ossigeno. C’è una specie di terremoto, altrettanto invisibile. I palazzi e i campanili delle città là fuori restano integri. Le macerie si accumulano nelle case delle famiglie. Nelle casse vuote delle attività commerciali. Le crepe dell’asfalto si aprono tra le persone, nella comunità: la voragine si istituzionalizza. Si chiama distanziamento sociale. Serve a non trasmettere il terremoto che viaggia nell’aria. I morti, invece, sono gli stessi di quarant’anni fa. Sono visibili, offrono il tragico spettacolo della materia che si deteriora sotto i colpi del virus nei reparti degli ospedali Covid.

La camorra si fece imprenditrice

Oggi come allora siamo davanti a uno spartiacque. Nel 1980 centinaia di miliardi di lire della ricostruzione piovvero sulla Regione. L’occasione fu persa. Da tutti. Non dalla camorra, che da allora riuscì a cambiare pelle. Divenne per la prima volta – come ha ricordato di recente anche il magistrato Federico Cafiero De Raho- entità imprenditrice. Dai sobborghi suburbani la criminalità organizzata ascese ai grattacieli del Centro Direzionale.

Sfornò colletti bianchi, sguinzagliò prestanome per vincere appalti miliardari, raggiunse una capacità economica e imprenditoriale che le permise di abbandonare le attività storiche del contrabbando di sigarette e delle estorsioni per infilitrarsi nei gangli dello Stato. La guerra con i cutoliani fu solo un passaggio. I vincitori della Nuova Camorra furono i Casalesi, i Mallardo, i Di Lauro. Imprenditori che seppero cavalcare il business della droga, dell’edilizia e degli appalti pubblici, infettando il tessuto sociale con il virus della corruzione.

Le conseguenze negli ultimi quarant’anni sono state disastrose. Le imprese della camorra, foraggiate dai soldi della ricostruzione, hanno monopolizzato interi settori di mercato distruggendo la concorrenza. La politica è scesa a patti con i clan. Voti in cambio di affidamenti milionari e posti pubblici. Alcuni cronisti intuirono il cambiamento che stava avvenendo dopo il terremoto in Irpinia. Seguirono gli echi prodotti dal sisma. Uno, Giancarlo Siani, che indagava sui rapporti tra politica locale e criminalità, pagò con la vita le sue inchieste.

L’ora del cambiamento dopo 40 anni

Adesso la ricostruzione si chiama Recovery Fund. All’Italia spetteranno almeno 208 miliardi di euro. Tantissimi saranno destinati al Sud. La criminalità organizzata ha già fiutato l’affare, perché dove c’è crisi c’è business. E il covid è una grande opportunità. La prima a pagarne il prezzo più alto sarà l’economia sana, quella dei commercianti e dei negozianti schiacciati dai debiti. La criminalità organizzata dispone dei flussi di liquidità necessari a rilevare le attività in crisi e delle risorse sufficienti per entrare in società con gli imprenditori onesti piegati da una stagione di chiusure.

Occorre “fare presto”, questa volta. Trovare il giusto compromesso tra i tempi dei controlli dettati dalla burocrazia e la fretta imposta dalla crisi. Occorre impedire che la camorra possa impossessarsi di altre parti sane della società e dell’economia. Le cose da fare sono tante: c’è da rifondare la sanità pubblica, assumere medici e infermieri, sfruttare le risorse del Green Deal per riconvertire l’economia degli idrocarburi in un’economia a impatto ambientale zero entro il 2050. Il futuro si gioca adesso. Prima che venga rubato a quelli che saranno i figli e i nipoti del Covid. Prima che altri cinema, altri bar o altri ristoranti debbano chiudere per sempre i battenti in una via o in una piazza di provincia.

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