Avevo 7, quasi 8. Sono passati 40 anni e pure quel 23 novembre 1980 lo ricordo, non bene, ma lo ricordo. Per i napoletani, i campani, soprattutto per gli irpini il 23 novembre di 40 anni fa non lo dimentichi facilmente. Era domenica. Eravamo andati a trovare la zia ad Acerra, la sorella di mio padre. Si lui è nato li, e il pomeriggio era passato a sentire la partita alla radio con il mio papà e a giocare con i mie cugini e mio fratello. Eravamo in procinto di andare via per tornare a Napoli, mio padre non ama guidare la sera e poi era ora di tornare verso casa, erano passate le 19. Faceva caldo, lo ricordo bene. Era stato un novembre caldo. All’improvviso andò via la luce, la casa dei miei zii iniziò a tremare, un boato, la finestra aperta e il cielo rosso. La finestra era aperta, faceva caldo. Al buio il rossore del cielo e le urla della gente aumentavano la paura. Mio padre ci mise all’entrata di casa sotto l’architrave. Eravamo li impietriti e non capivamo, anzi capivamo bene. Era il terremoto. Sembrava interminabile quella scossa. Non finiva mai. Con molta imprudenza pochi minuti dopo scendemmo di casa. Quasi a scappare via dalla paura di quel tremore. La gente si era riversata in strada, molti piangevano e da qual momento per me c’è un vuoto. Ricordo che mia madre aveva una gran paura per la nostra casa a via Chiaia a Napoli. Palazzi vecchi, spalla a spalla l’uno con l’altro, la paura di mia madre era per i nonni che vivevano nel nostro stesso condominio ma all’altra scala. Ripeteva “sarà crollato tutto, torniamo a Napoli, torniamo”. Il tragitto non lo ricordo, ricordo Piazza del Plebiscito piena di auto, ricordo di essere giù casa e guardare con paura mista a felicità i balconi casa mia. I palazzi avevano retto. Spalla a spalla si erano “aiutati” oscillando ma quasi “reggendosi” l’uno con l’altro. Il cielo era ancora rosso, faceva caldo. Noi eravamo in una Fiat 127 rossa. L’auto di mio padre, una Ferrari per me, e per alcuni giorni divenne la nostra casa. Quella notte dormimmo in auto, in piazzetta Carolina, guardando il nostro palazzo, la nostra casa e la casa dei nonni vicina. Loro non scesero da casa. Dormimmo lì quella notte con altre macchine vicine parcheggiate senza un ordine preciso, ma era un modo per essere vicini in quella tragedia. Non ricordo se mio padre salì la sera stessa a prendere qualcosa a casa, una coperta forse, sicuramente lo fece il giorno dopo e io speravo solo che non ci fosse un’altra scossa mentre lui era su. I vigili del fuoco ci sconsigliarono di salire nelle case e per alcuni giorni restammo lì soprattutto la sera. La nostra 127 rossa divento casa e posto dove giocare con mio fratelli che aveva solo 3 anni. Oggi a 40 anni di distanza ancora una volta penso che fummo fortunati. Molte case crollarono, molte persone persero la vita, molte persone per giorni non poterono tornare nelle proprie casa. Furono giorni difficili e per molti di grande difficoltà. Oggi raccontiamo invece la pandemia del Coronavirus, bombardati da informazioni, pronti a fare dirette e raccontare lockdown, tra social e collegamenti Skype da casa. Ci sono i cellulari, lì neanche i telefoni di casa funzionarono per giorni. Le poche notizie erano dei telegiornali della sera o del giornale che raccontava quello che fu un ricordo triste per molti napoletani. 40 anni fa come oggi per me resterà un ricordo indelebile, una storia da scrivere e da confrontare con questo momento buio che stiamo vivendo. Di quel terremoto ci sono ancora le ferite, per colpa di tanti, e speriamo di evitarne di nuove provando a ripartire anche dagli errori commessi dopo quel 23 novembre 1980. 

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