chi è giuseppe pinelli

Giuseppe Pinelli è stato un anarchico, partigiano e ferroviere italiano, animatore del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa e giovane staffetta nella Brigata Autonoma Franco, forse collegata alle Brigate Bruzzi Malatesta durante la Resistenza. Morì nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era illegalmente trattenuto (ampiamente scadute le 48 ore di fermo di polizia) per accertamenti in seguito alla esplosione di una bomba nella sede di piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura, evento noto come strage di piazza Fontana.

Biografia di Giuseppe Pinelli

Nato a Milano il 21 ottobre 1928. Nel ’44/’45 partecipa alla Resistenza antifascista come staffetta della Brigata autonoma Franco, qui conosce l’anarchico Angelo Rossini, attraverso cui entrerà nel movimento libertario. Il fatto che Rossini compaia anche negli elenchi delle Brigate Bruzzi Malatesta fa supporre che tra le due formazioni vi fosse un collegamento. Dopo la fine della guerra “Pino”, come è chiamato, continua l’attività nel movimento anarchico a Milano.

Nel 1954 vince un concorso ed entra nelle ferrovie come manovratore. L’anno successivo si sposa con Licia Rognini, incontrata ad un corso di esperanto. Nel 1963 si unisce ai giovani anarchici della Gioventù Libertaria, due anni dopo è tra i fondatori del circolo Sacco e Vanzetti. Dal novembre 1966 partecipa e sostiene la rivista «Mondo Beat».

Nel 1968 uno sfratto costringe i militanti alla chiusura del circolo ma, il 1º maggio Pinelli è tra gli inauguratori di un nuovo circolo, in piazzale Lugano 31, a pochi metri dal Ponte della Ghisolfa. E’ tra i promotori della ricostruzione della sezione dell’Unione Sindacale Italiana (USI), l’organizzazione di ispirazione sindacalista rivoluzionaria e libertaria.

Il 1969 fu l’anno dell’autunno caldo, il momento di più alta unità e conflittualità operaia dalla nascita della Repubblica. Scioperi, picchetti, occupazioni delle fabbriche e cortei segnarono fortemente la seconda metà di quell’anno, in particolare per l’intensità dello scontro politico in atto che, alimentato da una diffusa ideologia rivoluzionaria dei gruppi della sinistra extraparlamentare nati dopo il Sessantotto, sfociava in violenti scontri di piazza. In questo clima arroventato, sul finire del 1969, il 12 dicembre, nei locali della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, lo scoppio di una bomba uccise numerose persone.

Il fermo e la morte di Pinelli

La sera stessa della strage la polizia fermò 84 sospetti, tra cui Pinelli, invitato dal commissario Calabresi a precedere la volante della polizia in questura con il suo motorino per accertamenti. Tre giorni dopo, il 15 dicembre, Pinelli si trovava ancora nel palazzo della questura. Erano abbondantemente scadute le 48 ore e il fermo era diventato illegale in quanto non convalidato dal magistrato. Durante un interrogatorio da parte di Antonino Allegra (responsabile dell’Ufficio politico della questura) e del commissario Luigi Calabresi, in presenza di quattro agenti della polizia in forza all’Ufficio Politico (Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli) e del tenente dei carabinieri (nonché agente del Sisdi) Savino Lograno, Pinelli precipitò dalla finestra dell’ufficio al quarto piano della questura in un’aiuola sottostante. Portato all’ospedale Fatebenefratelli, ci arrivò già morto.

La prima versione data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocata poco dopo la morte dell’anarchico, a cui parteciparono anche il dott. Antonino Allegra ed il commissario Calabresi, fu quella del suicidio (Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto), dovuto al fatto che il suo alibi si era rivelato falso; versione poi ritrattata quando l’alibi di Pinelli si rivelò invece credibile. Secondo alcune versioni iniziali della polizia, mai confermate, Pinelli precipitando avrebbe gridato l’ormai celebre frase: «È la fine dell’anarchia!».

Il trattenimento di Pinelli in questura oltre le 48 ore, non essendo stato il fermo convalidato dall’autorità giudiziaria, in base a quanto previsto dall’art. 13 della Costituzione, doveva intendersi revocato e privo di ogni effetto: il 15 dicembre 1969, giorno in cui precipitò dalla finestra della questura, quindi, egli avrebbe dovuto essere libero. Il giorno successivo, 16 dicembre, in seguito alla comparsa di un testimone, un tassista, per la strage di Piazza Fontana veniva arrestato Pietro Valpreda, che sarà poi giudicato innocente.

I funerali

Il 20 dicembre 1969 si svolsero i funerali di Giuseppe Pinelli, al cimitero di Musocco, a cui parteciparono la famiglia, i compagni anarchici e alcuni intellettuali come Franco Fortini (che ne scriverà un resoconto giornalistico), Vittorio Sereni, Marco Forti e Giovanni Raboni. Successivamente, il corpo di Pinelli sarà traslato nel cimitero di Turigliano, vicino a Carrara, e sulla lapide verrà apposta anche una poesia di Edgar Lee Masters, Carl Hamblintratta dall’Antologia di Spoon River (libro che Pinelli aveva regalato al commissario Calabresi nei giorni in cui la polizia indagava gli anarchici per le bombe dell’aprile 1969).

Il processo

Sulla morte di Giuseppe Pinelli si aprì un primo processo per diffamazione a mezzo stampa intentato da Calabresi nei confronti di Pio Baldelli, direttore del periodico Lotta Continua, iniziato il 9 ottobre 1970, di cui era presidente del consiglio giudicante Carlo Biotti. Gli interrogatori dei testimoni riguardo alla morte di Pinelli presentarono alcune discrepanze che spinsero la Procura della Repubblica a riaprire il caso Pinelli inviando un «avviso di reato» ai testimoni e al commissario Calabresi. Su questo processo Francesco Leonetti realizzò il documentario “Processo Politico“, con l’aiuto di Arnaldo Pomodoro e la fotografia di Carla Cerati.

Il presidente Carlo Biotti ordinò la riesumazione della salma di Pinelli e la relativa autopsia, ma fu ricusato prima in corte d’appello, poi sospeso da ogni funzione, infine accusato di verbale rivelazione di segreti d’ufficio (si sostenne che aveva già comunicato ad altri la sua convinzione di giudizio), prima con un procedimento disciplinare e poi con un processo penale. Biotti lasciò ogni carica, affrontando il processo prima disciplinare e poi penale che durò sette anni. Il magistrato verrà portato sul banco degli imputati a Firenze e verranno chiesti per lui, oltre alla sospensione della pensione, diciotto mesi di reclusione. Le uniche accuse, poi completamente smentite, nate senza alcun supporto probatorio, furono la rivelazione di Segreto d’ufficio e l’aver anticipato, in un colloquio privato, la sua convinzione già determinata sulla sentenza che il Presidente Biotti avrebbe fornito in confidenza all’Avvocato Michele Lener, fatto sempre negato dal giudice Biotti. A supporto dell’accusa fu determinante come indizio che al termine di una udienza il presidente Biotti strinse la mano ad un imputato, Pio Baldelli (il quale avvertiva che sarebbe mancato alla successiva udienza e il presidente Biotti “usa stringere sempre la mano a chi gliela porge”). La lunga battaglia legale finì con l’assoluzione di Biotti da ogni accusa in ogni grado di giudizio, con formula piena .

Alcuni organi di stampa, tra cui Lotta continua (n. 12, 14/05/1970) sostenevano che la salma di Pinelli presentasse una lesione bulbare compatibile con quelle che può provocare un colpo di karate. Peraltro, una lesione bulbare avrebbe provocato la morte immediata di Pinelli, il quale è invece deceduto due ore dopo la caduta dalla finestra.

In seguito a tali polemiche e su denuncia della moglie di Pinelli fu aperta una nuova inchiesta. La salma di Pinelli venne riesumata e analizzata. In realtà nella prima perizia necroscopica non si parlava di una lesione bulbare, ma di “un’area grossolanamente ovolare” conseguenza del contatto del cadavere con il marmo dell’obitorio. Fu fatta quindi una seconda autopsia che confermò il risultato della prima.

La sentenza

La sentenza dell’inchiesta sulla morte di Giuseppe Pinelli fu emessa nell’ottobre 1975: il caso venne chiuso attribuendo la morte di Pinelli ad un malore, secondo la sentenza del giudice D’Ambrosio. Dopo diversi processi, nel 2000, la Cassazione ha reso definitiva l’ultima sentenza della Corte d’Assise di Appello che aveva condannato Bompressi, Pietrostefani e Sofri a 22 anni (per Marino 11 anni, con prescrizione).

Attualmente Adriano Sofri si trova in detenzione domiciliare per motivi di salute. Bompressi è stato graziato da Napolitano. Pietrostefani vive in Francia ed è ufficialmente latitante.

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