Ci dovrebbe essere un limite, una molla, un meccanismo conscio o inconscio che ci faccia fermare al balcone, al finestrino dell’auto o sul ciglio della strada, un senso di inadeguatezza, di minaccia latente, la sensazione epidermica che la nostra libertà, i nostri diritti, i nostri spazi vitali sono messi in discussione da qualcuno o qualcosa. Questa sensazione, semplice, purissima, dirompente, dovrebbe essere il presidio di una società civile, l’istinto di conservazione di una comunità.

La morte della comunità. A Giugliano, a Napoli e nel resto di questa provincia devastata, la molla non esiste. La soglia di indignazione non scatta mai, il meccanismo di autodifesa collettiva cede il passo alla salvezza individuale, all’autismo. Il senso di comunità si disgrega sotto i colpi della camorra, di una pistola beretta sparata all’impazzata in una stradina del centro cittadino sotto gli occhi di decine di passanti. Le imposte si chiudono, le serrande si abbassano, i curiosi si aggrappano al nastro di plastica traslucido delle forze dell’ordine che delimita la scena del delitto e pone un limite tra la civiltà e la barbarie. Tra le parole e la chiazza di sangue appiccicata sull’asfalto ai piedi di una Fiat Panda.

Omertà 2.0. In mezzo c’è il silenzio. Colpevole o connivente. Indifferente o diffidente. Ma pur sempre silenzio. Il silenzio delle istituzioni, della gente comune, di una comunità che porta la morte dentro. Un silenzio che assume tantissime forme, si adatta ai nuovi media, ammicca all’omertà 2.0. Ieri, dopo la sparatoria in via San Vito, mentre 50mila circa leggevano su Teleclubitalia l’articolo sul più grave agguato di camorra a Giugliano degli ultimi vent’anni, le tastiere erano ferme. Nessun commento, nessuna frase di indignazione o di rabbia. Tutti condividevano l’articolo, confabulavano dietro lo schermo di un pc o di uno smartphone, tutti spettegolavano sui retroscena criminali, sul “hai capito chi è questo? Hai capito quest’altro?”, ma nessuno parlava, nessuno puntava un dito, nessuno esprimeva un giudizio. Politici e sindaco compresi, che, se proprio devono sbottonarsi, lo fanno con qualche tiepido comunicato diffuso via web il giorno dopo per salvare le apparenze. Tutti zitti e muti, insomma. Gli stessi che fino a ieri vomitavano frasi razziste e rigurgiti xenofobi sulla testa del nigeriano 25enne, martire della crociata antisessista in salsa salviniana, colpevole – pensate un po’ – di essersi abbassato i pantaloni nel centro di accoglienza di Licola davanti all’operatrice. I sentimenti di rabbia sociale e indignazione, d’improvviso, quando parlano le pistole, spariti nel nulla. Puff!

Meglio il negro. E non fa niente che il primo – la sparatoria – sia un fatto assai più grave. Che un gruppo di delinquenti camorristi inscena il far west sotto casa mettendo a rischio la vita di tuo figlio o di tua moglie. Che da mesi gli stessi delinquenti – probabilmente gli stessi – tengono in ostaggio la città, i negozianti e i commercianti a colpi di raid notturni. Meglio prendersela col nigeriano. Tacere. Distogliere l’attenzione, fare propaganda sul tema politicamente caldo. La gente è così, che vuoi? Fatti i fatti tuoi. Lascia vivere. Non metterti in mezzo con manifestazioni, proteste e menate anti-camorra, non dire niente alle guardie, se hai visto qualcosa, tanto non serve a niente. Loro non ti proteggono, lo Stato non ti aiuta. La città dorme, vittima di una specie di incantesimo, è narcotizzata, le strade popolate di tanti sonnambuli che la mattina si svegliano, vanno a lavoro o ne cercano uno, rincasano, sognano l’iPhone 7, vanno su Facebook, mettono il selfie su Instagram, guardano la partita del Napoli calcio alla tv e chiacchierano col vicino di casa al balcone. Il resto del mondo è fuori dalle proprie mura, facessero quello che vogliono. Si ammazzassero tra di loro, faida o non faida, sparassero pure, si prendessero il posto auto, il marciapiede di fronte, tutto il quartiere, e poi andassero oltre: il negozio, i palazzi comunali, gli appalti della monnezza, il monopolio del pane, i soldi, le ville, le belle macchine, le donne, e pure la dignità. Si prendessero le vite degli altri. Basta che non ci toccano a noi, che ci fanno stare quieti, ci fanno dormire tranquilli. Che ci fanno stare per i fatti nostri.

Ciò che si dovrebbe fare. Ma non è così che funziona in una società civile. Per niente. In una città di 120mila abitanti, tutti, cittadini, associazioni e istituzioni, dovrebbero rimpossessarsi della propria terra, scendere in strada, occupare fisicamente il proprio quartiere, non lasciarlo nella mani di una banda di delinquenti che un giorno spara e il giorno dopo impone il pizzo a tuo fratello o sotterra rifiuti tossici nelle campagne dietro casa tua. Il sindaco dovrebbe indossare la fascia tricolore, mettersi a capo di un corteo, gridare i nomi e i cognomi di quelli che mettono a ferro e fuoco la città, isolare i camorristi. Denunciare. La stessa cosa dovrebbero fare i consiglieri e tutti quelli che hanno l’incombenza di rappresentare la città di Giugliano. Invece no. Tacciono tutti, si fanno i fatti loro e si mettono in disparte. E questo una comunità che si rispetti non può permetterselo. Il silenzio e l’inerzia, in un territorio devastato dal malaffare, sono sinonimo di connivenza e complicità.

a cura di Marco Aragno

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