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Dopo ogni chemio ritrovarsi da soli in una cella è come stare nell’anticamera della morte. Gennaro Riccio fu arrestato nel 2016 e condannato in primo grado a 12 anni per la sua appartenenza al clan Sibillo e alla “Paranza dei bimbi” dopo essergli stato diagnosticato un tumore ha richiesto di poter essere curato con dignità, richiedendo un trattamento più umano con l’assistenza dei familiari durante le dure sessioni di chemioterapia.

A raccontarlo sono stralci presi dalla lettera che il detenuto ha inviato a Pietro Ioia storico fondatore dell’associazione “Ex Detenuti Organizzati”. “Ho commesso un reato e la  cosa giusta è che paghi in galera il  debito con la giustizia, sono in attesa di un trapianto di fegato a nel frattempo mi hanno diagnosticato un tumore. Mi fanno le chemioterapie quando sento dolore in tutto il corpo. Non mi sento più un essere umano, ma mi sento come un cane malato in un canile che aspetta solo la sua morte  – scrive nella sua lettera Riccio – io non chiedo di uscire o di morire a casa mia, perché immagino che ciò non sarà possibile, ma chiedo di avere cure adeguate alla mia malattia- segue ancora la sua lettera – in Italia se vuoi sentirti una nullità oppure un numero basta che si varchino le soglie delle nostre carceri. Io chiedo solo il diritto di sentirmi un essere umano e non un malato terminale di serie b”.

Hanno già annunciato i  familiari di Gennaro Riccio di essere in attesa di una perizia medica ufficiale che stabilisca la compatibilità del loro congiunto con il regime carcerario. Pertanto sarà il magistrato a decretare l’eventuale “allentamento” delle misure cautelari nei confronti dell’uomo.

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